Lo stereotipo del traduttore chiesto a Ilide Carmignani; traduttrice in italiano di scrittori di lingua spagnola

02/07/2012 12:38

Se discutere vuol dire confrontarsi, be’, è la sua funzione. Se invece s’intende litigare, no, per fortuna non mi è mai successo. Certo, è indubbio che l’esternalizzazione avvenuta a partire dagli anni Ottanta ha complicato le cose, capita di avere a che fare con revisori occasionali ancora molto inesperti e pressati dalla fretta, però sono eccezioni, di norma ho un rapporto soddisfacente con i miei editor, un rapporto di stima e gratitudine. Forse perché non sono troppo possessiva nei confronti della mia versione: se mi si dice che una certa parola non funziona, che un certo giro di frase inciampa, sono pronta a cambiare, ad accettare suggerimenti, purché ovviamente non mi sembrino una soluzione peggiore. Quello che invece davvero mi spaventa è uscire senza revisione, insomma quando l’editor ha lavorato in modo sbrigativo intervenendo poco o nulla: so bene quanto il traduttore sia non solo soggetto a errori e sviste come chiunque altro ma anche un po’ “accecato” dalla sua vicinanza estrema sia al testo di partenza che al testo di arrivo. Quello dell’editor è un lavoro molto difficile, molto oblativo, ogni tanto frustrante; mi torna in mente lo sfogo tragicomico del revisore dei Ferri del mestiere: «Ah, poter distruggere quelle pagine maledette, stracciarle con le proprie mani, scagliarle nel vento dal decimo piano, bruciarle, affogarle in un pozzo nero!». Qualche rara volta ho rivisto anch’io, per esempio alcune opere di García Márquez e di Antonio Machado per i Meridiani. Penso che sia un esercizio utile, aiuta a tradurre meglio e ad avere rapporti più felici con i propri redattori.

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